Un laboratorio per l’integrazione scolastica di alunni in situazione di handicap
Qualche anno fa ho lavorato in una scuola media proponendo un laboratorio “ludico-espressivo” all’interno di un progetto per l’integrazione dei ragazzi portatori di handicap. Il laboratorio si proponeva, a fianco allo scopo principale di avviare un
processo di integrazione tra ragazzi normodotati e non, i seguenti obiettivi: stimolarne l’espressione creativa; imparare a stare in gruppo sviluppando la capacità di ascolto, di comprensione, di collaborazione; favorire socializzazione e
responsabilizzazione dei partecipanti.
Abbiamo scelto di lavorare utilizzando il linguaggio musicale e quello corporeo, proponendoli come strumenti espressivi non necessariamente relegati ai contesti convenzionali e strutturati della musica, della danza e del teatro, ma alla portata di
tutti: tutti facciamo esperienza di ritmi e bio-ritmi, tutti emettiamo suoni, tutti compiamo movimenti (anche solo minimi), e questi veicolano i nostri stati d’animo, le nostre emozioni, aspetti della nostra personalità. Attraverso il gioco abbiamo
fornito ai ragazzi la possibilità di sperimentare tutto ciò, lavorando sui seguenti punti:
• Scoprire sonorità del corpo e del mondo circostante;
• Spazialità in rapporto a suono e movimento (es.: rapporto tra note musicali alte/medie/basse e livello del movimento: verticale/medio/a terra; rapporto tra qualità del suono forte/piano/maggiore/minore/ecc. e qualità del movimento leggero/pesante/fluido/contenuto/ecc.)
•Conoscere elementi della musica quali il ritmo, e svolgere varie attività di gruppo
partendo da questo
• Coralità e differenziazione (es.: dividendo il gruppo in “suonatori” e “danzatori”
sperimentando sia il movimento che segue/esegue la musica che il contrario;
creando piccole orchestre e affidandone la conduzione ad un ragazzo alla volta)
• Prendere coscienza di quanto il linguaggio corporeo e quello musicale siano
presenti nel quotidiano, tramite atteggiamenti posturali, gestualità, mimica facciale,
intonazione della voce, ritmi e pause nel parlare, ecc. ; utilizzare tutti questi
elementi per esprimere sé stessi e comunicare con gli altri.
Ogni incontro aveva un tema come filo conduttore delle attività (es. la comunicazione
non-verbale) le quali venivano proposte da noi per poter fornire elementi inerenti al
tema. Nella seconda parte veniva invece assegnato ai ragazzi/e, divisi in piccoli
gruppi, un compito, cosí da utilizzare spunti e strumenti sperimentati insieme. In tal
modo si promuoveva il coinvolgimento personale rispetto al tema, nonché la
responsabilizzazione e la collaborazione. Il prodotto finale di ogni gruppo si
presentava agli altri, per sollecitare un confronto costruttivo, l’apprezzamento dei
diversi svolgimenti possibili, e la valutazione collettiva di punti deboli e di forza dei
lavori svolti.
“Integrazione”: cosa vuol dire?
Il lavoro è stato molto coinvolgente e gli obiettivi preposti molto stimolanti, ma al
tempo stesso mi sono resa conto che lavorare per promuovere l’integrazione pone di
fronte a problematiche di metodo e di principio.
Spesso i progetti sembrano focalizzare sul portatore di diversità con l’obiettivo di
riuscire ad “infilarlo” nel contesto della normalità, cercando magari di ritagliare
all’interno di quest’ultimo, una nicchietta in cui relegarla. Questo procedimento secondo me ha poche prospettive ed è debole in partenza, in quanto il punto non dovrebbe essere quello di integrare il diverso e di maldestramente cercare di
tollerarlo: il problema da affrontare non è tanto quello della diversità, quanto
piuttosto quello della normalità, ovvero dell’esistenza, della persistenza e della
collusione collettiva col mito nel quale è stata trasformata.
Viviamo in una società dove moda, pubblicità, costume, film, libri, telenovelas, ecc.
ci ricordano ogni giorno come fare per essere giusti, adeguati, normali, creando
modelli di riferimento ai quali tutti si impegnano di aderire, perché il mito sembri
realtà e nessuno rischi di apparire “out”.
I canali di persuasione della cultura di massa e la collusione di ognuno con regole e
modelli che questi propongono creano questa facciata di normalità, ed insieme ad
essa creano la solitudine degli individui rispetto alle proprie diversità, la
svalorizzazione dell’unicità di ognuno, l’emarginazione di chi questi modelli non
riesce a sostenerli o si rifiuta di farlo.
Ne risulta una società schizoide, scissa, che ostenta splendore, efficienza, felicità,
sessualità, negando tutto ciò che rappresenta dolore, difficoltà, malattia, devianza. E’
questa un società che per preservare sé stessa e la propria integrità si oppone a novità
e trasformazioni degli esseri umani e la ricchezza che queste possono rappresentare.
Premia chi rinuncia alla propria espressività, alla propria unicità, alle proprie esigenze
profonde, con l’etichetta di Normalità, e quindi di appartenenza, di non-giudicabilità,
di non-solitudine.
Normalita’ e integrazione
“Normale” equivale ad una rinuncia individuale per poter aderire alla “norma” 1. Ma l’essere umano non è “normale”: è il controllo sociale, politico e culturale che lo costringe a pretendere di esserlo. Non esiste UN modo di nascere, esistere,
svilupparsi, rapportarsi, pensare, agire, sentire… ma esistono INFINITI modi per
farlo. Camminare con due gambe non è “normale”, casomai è “funzionale”: l’essere
umano esiste anche con una gamba sola o senza gambe. Allo stesso modo distinguere
un pensiero da voci allucinatorie è più funzionale del non distinguerle, ma non rende
una persona più umana o migliore di un’altra. 2
Essere umani comprende essere belli quanto essere brutti, avere pensieri insistenti quanto avere ossessioni psicotiche, stare bene in salute quanto essere malati, non saper rinunciare alle sigarette quanto non
saper rinunciare all’eroina, mangiare spaghetti quanto nutrirsi con la flebo, giocare a
basketball in piedi quanto farlo in carrozzina…
Il punto a cui voglio arrivare è che l’integrazione e l’accettazione della diversità
passano necessariamente dal mettere in discussione se stessi, affrontando innanzitutto
le proprie diversità dalla norma; dal realizzare che la norma è un modello sociale e
culturale e pertanto relativo e discutibile; che la realtà umana comprende tante
sfumature più o meno facili e belle o difficili e inquietanti, e che chi rappresenta in
modo più evidente un allontanamento dal modello non fa parte di una categoria
separata di esseri umani (quella dei matti, o handicappati, o tossicodipendenti, o
malati di AIDS o di qualsiasi altra cosa) ma è una delle tante espressioni possibili
della realtà umana a cui tutti apparteniamo.
Confrontarsi e rapportarsi con ciò di “strano” e sconosciuto che queste persone a
volte rappresentano può essere l’occasione di conoscere meglio sé stessi e il mondo
in cui viviamo, di esplorare in quanti modi la vita si esprime e si articola, di
riconoscere anche le proprie paure e i propri limiti 3.
Sarebbe necessaria una forte mobilitazione per trasformare società e cultura in questa
direzione, perché la cultura dell’omologazione e della negazione è molto radicata e
diffusa. Tuttavia, questa stessa forza della società di creare falsi modelli e falsi
bisogni rappresenta un grande stimolo verso il bisogno di creare una società migliore
(Jervis, 1976). Agire è possibile, ma credo sia fondamentale farlo intervenendo con
coscienza, con la chiarezza di voler diffondere cultura, o meglio: un certo tipo di
contro-cultura. Promuovere l’integrazione diviene così un agire politico, e farlo
attraverso attività pratiche come lo sono ad esempio i laboratori espressivi o le arti
terapie diviene un modo estremamente concreto e diretto di “fare politica” e “fare
cultura”.
Arti terapie e terapie espressive
I linguaggi artistici si propongono in tal senso come strumenti di lavoro
particolarmente idonei, in quanto l’arte stimola e valorizza l’unicità individuale.
Utilizzandola quale mezzo socio-educativo e terapeutico si valorizza in particolare il
processo creativo piuttosto che il prodotto finale, pertanto non esiste il bello e il
brutto, il giusto e lo sbagliato, il dotato e il non dotato. Cio’ che conta non è la
conferma esterna quanto piuttosto il processo creativo che si innesca, l’impegno nel
cercare di esprimere se stessi, le proprie emozioni e l’autenticità con cui si fa tutto
ciò.
Nei laboratori proposti ai ragazzi qualche anno fa, questi principi e questi strumenti ci
hanno permesso di coinvolgere ogni partecipante in prima persona, il che, in
quest’ottica di intervento globale e non mirato al solo ragazzo segnalato, è
fondamentale. Ognuno trovava nel laboratorio la possibilità di esprimersi, di
confrontarsi e di mettersi in gioco. Le attività proposte miravano in buona parte ad
una sensibilizzazione che permettesse ai ragazzi di appropriarsi dei temi “unicità
individuale”, “diversità” e “difficoltà” sentendo che riguardava innanzitutto loro, e in
secondo luogo anche chi è portatore di handicap. Importante si è dimostrato inoltre il
lavoro sul senso di gruppo, sul suo consolidarsi, sulla fiducia, sull’autenticità delle
relazioni: presupposti indispensabili perché i partecipanti accettino di esporsi e di
condividere se stessi.
Lavorare nelle scuole
Trovo che questo lavoro sia particolarmente importante se svolto durante la preadolescenza e l’adolescenza, età in cui i ragazzi attribuiscono enorme importanza
all’appartenenza ad un gruppo nel quale condividere costumi, linguaggi,
atteggiamenti ed opinioni. Pur di sentirsi parte di esso, sono spesso disponibili a
rinunciare ad aspetti importanti di sé, cercando di uniformarsi agli altri. Pertanto
sostenerli nello sviluppo di un senso critico nei confronti dell’omologazione può
essere estremamente importante, e può acquisire un profondo valore pedagogico,
preventivo e innovativo se viene proposto dalla e nella stessa scuola, che troppo
spesso invece produce e diffonde cultura omologata.
Infine, ritengo che proporre nelle scuole attività a favore di una cultura
dell’integrazione, sia auspicabile al di là della presenza fisica di un etichettato
sociale, perché diversità riguarda tutti, perché l’assolutezza della norma è pericolosa
per tutti e perché creatività e autenticità sono anch’esse devianti ma sono preziose
risorse di cambiamento e di innovazione.
BIBLIOGRAFIA
• Jaspers K.; Psicopatologia Generale; tr. it.; Roma, “Il Pensiero Scientifico2 Ed.;
1964
• Jervis G.; Quali Bisogni? Alcune note; Ombre Rosse; 1976; n° 17; 5
• Venturini R.; Coscienza e Cambiamento – Una Prospettiva Transpersonale per la
Psicofisiologia Clinica; Quaderni di informazione in psicologia,
psicoterapia,psichiatria; s.d.; s.l.
• Warren B.; Arteterapia in educazione e riabilitazione; Erickson; 1995
Articolo: “Visto da vicino nessuno è normale”, di Carlotta Basurto, pubblicato su Arti Terapie n° 3/4
maggio/giu/lu/ago. 2001 anno VII
- La parola “norma” viene dal latino norma, squadra del carpentiere, ed ha nella sua etimologia il significato di
regola, standard, modello. Normale sarà ciò che è secondo la squadra, ossia ciò che è secondo una regola.Venturini individua cinque criteri o modelli principali secondo i quali viene comunemente intesa la normalità: mod.
soggettivo, secondo il quale un individuo valuta sé stesso come lo standard di riferimento. Mod. culturale, secondo il
quale ciascuna cultura approva alcuni comportamenti, considerandoli normali, e ne bandisce altri. Mod. statistico:
considera normale ciò che si colloca nell’ambito medio dei valori di una popolazione (pertanto considera normali
comportamenti diffusi ma che non necessariamente corrispondono al miglior stato dell’organismo, né si presentano
come desiderabili). Mod. normativo: si considera la normalità in relazione al grado di approssimazione ad un predefinito ideale. Mod. clinico: il più utile nell’approccio ai problemi della condotta, (ma affatto il più utilizzato
comunemente) attribuisce maggiore importanza all’indipendenza dell’individuo, intesa come libertà da sintomi limitanti e gestione attiva delle proprie potenzialità di salute. (Venturini pag 2.4) ↩ - Le configurazioni estreme dell’alienità, le “malattie” in cui l’uomo rischia di smarrire la sua libertà (come le psicosi), vengono dunque a costituire testimonianze del suo esser-costretto-ad-essere (…) e tuttavia, anche queste forme alienate rivelano, nella loro essenza più profonda, il loro esser modalità di presenza e progetti di mondo, e quindi possibilità propriamente umane, collocate lungo quel continuum della condotta, che supera ogni concezione dicotomica di salute e malattia. (Venturini, op. cit., p. 2.10) ↩
- A questo proposito, riferendosi al caso specifico della psicosi, Jaspers scrive: lo psicotico può divenire una parabola di tutto l’essere umano per ciò che vi è di più estremo in lui; in tale condizione sembrano avvenire realizzazioni distorte e capovolte di situazioni ed elaborazioni esistenziali; in individui che diventano malati si evidenzia una profondità, che non appartiene alla malattia come oggetto di indagine empirica, ma a questo individuo nella sua storicità (…) Le estreme possibilità umane diventano reali nell’irrompere attraverso i confini dell’esistenza. (Jaspers, pag 335) ↩
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